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L'alveare di Gibilmanna
Ricordi di un'epoca

La prima domenica di settembre 2011 nel Santuario di Gibilmanna è stata celebrata l'annuale Festività dedicata alla Vergine Maria, questa ricorrenza mi dà modo e motivo di rammentare degli avvenimenti collegati ad essa, alcuni dei quali, riferiti ad anni piuttosto lontani.
Ricordo che nei giorni intorno a metà febbraio 2009 un'insolita e improvvisa nevicata ha imbiancato abbondantemente il Santuario e i monti circostanti dando modo a tanta gente e in particolare a tanti bambini di trascorrere qualche ora di svago immersi in un paesaggio inconsueto e meraviglioso e non è mancata, con la piacevole occasione, la possibilità di fare una breve visita al Santuario e all'altare della Madonna per dedicare a Lei una preghiera o porgere un ringraziamento.
Anch’io sono stato attratto verso quell’insolita realtà che non si verificava da una trentina d'anni in modo così abbondante e che mi ha fatto ricordare di un altro evento simile avvenuto nel lontano inverno del 1956 quando il Santuario rimase per molti giorni isolato e soltanto pochi abili montanari molto esperti dei luoghi riuscirono a ripristinare i sentieri e i collegamenti essenziali per far giungere al Convento i generi di prima necessità.
Trascorsi alcuni minuti di raccoglimento davanti all'altare della Madonna, mi sono avviato alla volta della Sacrestia chiedendo del mio caro e vecchio amico frate Tarcisio con cui solitamente mi piaceva scambiare qualche parola; è stata grande la mia costernazione nell'apprendere che era stato ricoverato d'urgenza in ospedale e ancora più grande poi il rimpianto di non aver fatto in tempo a rivederlo ancora in vita.
Oggi, a poco più di due anni e mezzo dalla sua ascesa in Cielo, ricordo con grande emozione quell’affabile sorriso, quelle parole intrise di tanta saggezza e umanità, quel suo distinto e modesto modo di essere e di fare umile e accogliente già impressi nella mia mente come i più indimenticabili ricordi di Lui e sono certo di non essere il solo a cui rimarranno sempre vivi nella memoria poiché pure coloro che hanno avuto modo o fortuna di averlo incontrato anche per una sola volta non potranno fare a meno di ricordarlo.
Il 26 febbraio 2009 si è spenta improvvisamente una luce nel Santuario e nel monte Sant'Angelo ancora ammantati, non a caso, di bianco ma, certamente, per mostrare il paramento più candido per il Frate in procinto di lasciare per sempre quei luoghi terreni a Lui tanto cari; si è accesa una piccola Stella nel Cielo, piccola come il piccolo e umile grande Frate che, sebbene tra tante altre molto più grandi e luminose avrà sempre modo di farci giungere un pur fievole raggio di luce e di speranza di cui tutti sentiamo la mancanza e il bisogno.
Servitore della Patria, della Madonna e di tutto il Popolo di Dio; era del 1919 e, poco più che ventenne, chiamato alle armi fu destinato a Trieste città a cui dedicò le sue giovani energie nella lotta per la sua liberazione e con la quale mantenne sempre saldo un vincolo affettivo e patriottico anche dopo il congedo, a seguito del quale, nel 1945, intraprese la vita monastica di frate laico espletando con grande zelo ed umanità importanti incarichi senza mai discostarsi dai suoi ideali e dalla sua innata vocazione francescana.
Ero ragazzo e ricordo ancora la figura minuta, semplice e accattivante di questo frate, molto diversa da quelle di tanti altri frati questuanti che venivano nella nostra casa di campagna a Fontanasecca; allora non sapevo nulla di Lui tranne che era nostro compaesano e ricordo durante una vendemmia, mentre con mio padre pigiavamo l'uva, la voce di mia nonna “sta arrivannu u munachieddu” e mio padre “s'arricampinu cuomu i viespi appiena sientunu u ciauru ru mustu” al che mia madre rispose “viri ca a Gran Signura puoi ti castia” …. era Lui frate Tarcisio che arrancava lungo il viottolo in salita seguito dal suo grande mulo.
Voglio allora esprimere alcuni particolari di una delle tante cordiali e indimenticabili chiacchierate avvenute tanti anni fa, i tanti ricordi di frate Tarcisio e i miei.
Com'era sua consuetudine dopo essersi intrattenuto con amici o visitatori, tra una parola e l’altra, alla fine usava sempre accompagnare tutti verso l'uscita del Santuario non trascurando mai di fare una lenta e composta genuflessione passando dinanzi alla Madonna e fu proprio così che una volta con le dita congiunte sotto la lunga barba, incominciò a raccontarmi che in anni ormai lontani le celebrazioni in onore della Madonna avvenivano due volte l'anno il 15 di agosto per ricordare l'Assunzione della Vergine Maria, raffigurata nel dipinto che troneggia sull'altare maggiore del Santuario e poi, in forma più solenne, l’otto di settembre per commemorare la sua Natività; quest’ultima era davvero la festa più importante celebrata con grande partecipazione di popolo, con tanta umiltà e devozione.
Le due feste erano molto attese nel corso dell’anno e in quelle occasioni attraverso antichi e tortuosi sentieri, viottoli, trazzere e mulattiere confluenti al Santuario, o per la polverosa e tanto attesa strada rotabile, iniziata intorno al 1925 e poi ultimata sul finire del 1936, giungevano numerosi gruppi di devoti da ogni contrada del territorio di Cefalù e da ogni paese del comprensorio madonita come Isnello, Castelbuono, Collesano, Lascari, Gratteri, Pollina, San Mauro e Geraci per citare i più vicini ma anche da altre località della grande e antichissima Diocesi di Cefalù di cui la Gran Signura nel 1954 diviene Patrona con proclama emesso dal Papa Eugenio Pacelli.
Altre interminabili carovane di pellegrini, con ogni mezzo, provenivano anche da località molto più lontane, gente di ogni ceto e cultura, credenti e non credenti ma tutti accomunati dai medesimi sentimenti e buoni propositi; tra la moltitudine che risaliva verso il Santuario si notavano anche gruppi di persone che camminavano più lentamente degli altri mormorando il Rosario, scalzi e con il capo scoperto, per sciogliere un Voto o una promessa fatta alla Madonna, per implorare una grazia o per espiare una penitenza.
Già dal 1931 gli autobus blu di Joe Incaprera, con arrivo e partenza dallo spiazzo antistante la chiesa di Santa Maria, dove vi era la biglietteria, percorrevano regolarmente due corse al giorno sulla nuova strada sterrata fino a Croceferro poi, avvenuto il completamento, il servizio venne concesso alla SITA e lungo l'intero percorso furono collocati diversi paletti metallici con cartelli di colore blu recanti la scritta SITA - FERMATA AUTOBUS per indicare le fermate di Gazzana, Croce Parrino, Giardinello, Cippone, San Cosimo, Allegracuore, Colla, Prima Croce, Colombo, Capo d'acqua, Romito, Croceferro e Pianetti.
La singolarità che si percepiva in quei volti tipicamente campagnoli scuriti dal sole cocente delle nostre fertili e assolate campagne, oltre alla loro semplicità, era la forte e costante devozione e stupiva il vederli gioire per il solo fatto di ritrovarsi ancora una volta lì e poter trascorrere una giornata di fede e di devozione vicini alla Madonna con serenità, speranza e riflessioni cariche di puri sentimenti e spiritualità, insieme ad amici e parenti con cui non ci si incontrava da lungo tempo o a lontani conoscenti, sentendosi sicuri, protetti e in qualche modo anche privilegiati di potere offrire a Lei ogni tipo di doni: dai fiori appositamente coltivati e accuratamente raccolti alle prime luci del giorno affinchè conservassero più a lungo il loro profumo, a un dolce casareccio per i frati, un voto, una preghiera o un semplice e spontaneo ringraziamento per una grazia ricevuta e, soprattutto, la loro grande devozione fisica e spirituale; alcuni fedeli delle località più lontane partivano uno, due o anche tre giorni prima con carretti, a dorso di muli o di asini facendo tappe notturne nei pagghiara, nei marchiti o in qualche vecchio casalinu abbandonato che incontravano lungo il percorso dedicando, nel corso della particolare nottata, molto tempo al Rosario e alle preghiere Mariane e anche tanta attenzione alle abbondanti scorte di cibi e di biada per i muli e gli asinelli e anche ai doni per il Convento come cereali, legumi, vino, olio, castagne, nocciole, mandorle, datteri, fichi secchi e tante altre cibarie, tuttavia, non era raro che potesse capitare che a tarda notte, quando il sonno prendeva la mano agli stanchi viaggiatori, attirato da tanto ben di Dio qualche astuto topolino di campagna approfittasse della provvidenziale occasione creando frastornazione e rabbia al risveglio dei malcapitati pellegrini.
I primi ad arrivare non si perdevano un comodo posto sotto le grandi querce secolari accanto al Santuario dove, accostati ai loro muli ed asinelli, addentando un cuozzu ri pani e tumazzu e sorseggiando vinu viecchiu nto ciaschitieddu ri ulisanu, seduti su dei fasci di fieno bianco e profumato già predisposti per trascorrervi la notte, si raccontavano a vicenda le peripezie del lungo e faticoso viaggio, le nuove scorciatoie intraprese per giungere prima al Santuario, i risultati della mietitura e della vendemmia o le avventure di indimenticabili e irripetibili battute di caccia.
In quel tempo l’accesso al Santuario era costituito da quattro gradini lunghi da un capo all’altro del torniale, poi da due gradinate di sei gradini ciascuna poste ai lati di un’ampia aiuola con folti cespi di oleandri e ricoperta interamente da un morbido manto erboso, luogo molto ambito e privilegiato per trascorrervi la notte che veniva solitamente occupato dalle famiglie con bambini piccoli arrivate nel pomeriggio della vigilia.
La compostezza della gente in quel luogo sacro era d'obbligo e veniva molto osservata in tutte le sue forme ma talvolta poteva succedere che qualche allegra comitiva, giocando a carte all'ombra delle grandi querce in attesa della Processione, scherzando con il vino e dimenticando la sacralità del luogo non accettasse l'ennesima sconfitta e andasse in escandescenze anche bestemmiando e così qualche benemerito pellegrino o il Padre Guardiano in persona dovevano intervenire additando il cartello di mussoliniana memoria posto nei pressi del torniale recante la perentoria scritta “la legge punisce chi sputa per terra e chi bestemmia”.
Mentre la moltitudine di fedeli si andava sistemando per godersi la frescura notturna e la silenziosità quasi mistica del luogo interrotta soltanto dai rintocchi cadenzati dell'orologio e, talvolta, da un raglio d’asino, dal canto di un uccello notturno o dal tintinnio dei campanacci delle vicine mandrie, dentro il Santuario e in ogni locale dell'annesso Convento s'intrecciavano svariate attività tutte svolte secondo un rituale ormai consolidato; ciascun frate assolveva con estrema puntualità e semplicità il compito assegnatogli, tutto doveva essere pronto da lì a poco per la grande festa; frate Fortunato, com’era sua abitudine ormai da tanti anni, curava personalmente tutti i preparativi per l'accoglienza della grande massa di fedeli più della sua modesta persona, sempre sicuro che alla fine tutto sarebbe andato per il meglio e si diceva che, una volta, ebbe a confidare a un suo caro amico che in quei giorni di preparativi recitava sempre una Ave Maria in più alla Madonna.
Per l’incarico a cui adempiva, espletato sempre con massimo impegno e dedizione, ma anche per il suo carattere mite e paterno era molto stimato da tutti i fedeli che accoglieva sempre e in qualunque circostanza con ineguagliabile umiltà e cultura dando ogni spiegazione, ogni notizia o avvenimento sull'origine e sulla storia del Santuario e mi pare di sentire ancora la sua voce dall'inconfondibile tono caldo e pacato …. “intorno al 580 Gregorio Magno, successivamente eletto Papa e poi salito alla Gloria degli Altari, fece edificare tra i boschi ai piedi del Pizzo Sant’Angelo il piccolo monastero di frati Benedettini sulla preesistente chiesetta di San Michele Arcangelo in quel tempo curata e custodita da eremiti che trovavano in quel luogo solitario e di preghiera la tranquillità, la serenità e la vocazione per sostenere la solidarietà e la carità” …. e “dal 1530 al 1535 l'insediamento dei primi Padri Cappuccini del primo ordine Francescano che, seguendo lo spirito intraprendente e riformista del frate eremita Sebastiano di Gratteri, posero le basi fondamentali della Comunità Francescana costruendo l’impianto dell’attuale Santuario, in parte adibito a Convento, di cui ricoprì il primo incarico di Padre Guardiano”.... e non si stancava mai di ammirare la bellissima statua della Vergine col suo Bambino, di far risaltare di Lei ogni più piccolo e nascosto particolare che potesse interessare anche il più semplice dei pellegrini venuti per partecipare alla celebrazione del Festino.
Sapeva tutto di Lei ed era sua consuetudine dedicare ad uno o cento curiosi visitatori con uguale trasporto e passione ogni notizia sulla Madonna …. “e si racconta anche che nei giorni di Pasqua del 1530 un'imbarcazione che trasportava una statua della Madonna col Bambino a causa di un forte uragano marino naufragò nei pressi di Roccella e un umile e sconosciuto frate eremita di Gibilmanna, a cui la Madonna era apparsa in sogno implorando aiuto, insieme ad alcuni volenterosi del luogo la posero su di un carro trainato da buoi che vagando a lungo per quelle antiche contrade alla fine si fermarono esausti alle pendici del monte Sant'Angelo proprio nel luogo dove poi verrà eretto il Santuario dedicato alla Madonna”.
Nel 1957 alla veneranda età di 84 anni, destando grande sconforto tra la gente dell'intera Diocesi e non solo, frate Fortunato salì nella Gloria dei Cieli a fianco della Madonna di Gibilmanna a cui aveva dedicato la sua vita terrena sempre improntata alla carità e alla fratellanza.
Accennando un sospiro, come a voler dire qualcosa che non è più, frate Tarcisio mi diceva che allora i frati erano molto numerosi e di età diverse e ciascuno, nel proprio ruolo, collaborava con grande impegno e devozione alla vita della comunità religiosa. Nella memoria storica restano segnati pochi e semplici nomi di battesimo, i ricordi di tanti o di qualcuno in particolare, ma tutti mirabili esempi di quotidiana abnegazione, solidarietà e fratellanza: frate Serafino morto nel 1955, frate Rosario di Resuttano nel 1958, frate Felice nel 1961, frate Angelo e tanti altri ancora; il Santuario con l'annesso convento era come un alveare vivo e solidale: i frati le api laboriose e la Madonna la Santa Regina.
Il raffronto non faceva una piega e non mi stupiva, conoscendolo, la disinvolta ma profonda saggezza con cui quest’umile frate lo aveva proferito.
Nelle terre retrostanti il Santuario frati campagnoli coltivavano ortaggi di ogni specie e innumerevoli varietà di alberi da frutta, allevavano galline e maiali, capre maltesi perchè davano molto latte e pecorelle e ogni mattina facevano il formaggio e la ricotta integrando così, a quelle donate dai devoti della Madonna, ulteriori risorse e importanti scorte alimentari per il sostentamento della numerosa comunità religiosa.
Anche all'interno del Convento venivano esercitate svariate attività: un mulino per molire il frumento, dei forni per la panificazione, un'officina con un fabbro per costruire e riparare gli attrezzi agricoli e ferrare i muli, una cantina con varie botti di roverella abilmente realizzate da un frate bottaio in una apposita falegnameria e poi locali per il deposito della legna, della biada per i muli e tante altre cose.
Ricordava con grande riverenza le figure patriarcali dei frati ri missa o presbiteri ma ancor di più e con più dovizia di particolari gli umili e instancabili frati vurdunara addetti al trasporto dell'acqua, della legna e quant'altro necessitava al Convento e i muonici ri cierca o frati questuanti a cui si onorava di essere appartenuto per tanti anni e di cui conservava i ricordi più belli, Lui piccolo frate al pari di quegli uomini forti e vigorosi capaci di affrontare pesanti fatiche e difficoltà di ogni genere, con i piedi callosi e screpolati dal freddo invernale e con le pattine delle loro tonache sempre stracolme di immaginette della Madonna, che trascorrevano con il buono o cattivo tempo buona parte dell’anno a fare la cerca; si alzavano di buon mattino e dopo avere strigliato e sellato il proprio mulo e data una buona pulita alla stalla partivano ciascuno con il proprio mulo alla volta delle campagne girando casa per casa per raccogliere, secondo le stagioni, tumoli di frumento nelle aie durante la trebbiatura, mosto durante le vendemmie che trasportavano dentro otri di pelle di capra conciata e rivoltata posti nelle bisacce e poi castagne, noci, mandorle, fave, lenticchie, ceci, carrubbe, orzo per cibare le galline ma anche per fare del buon caffè e avena per i muli, formaggi e lana di pecora e poi tutto ciò che il grande cuore della gente si sentiva di donare, talvolta anche con privazione, e ciascuno riceveva da quelle umili mani, molto più disposte a dare che a ricevere, il pane benedetto, le olive fatte in salamoia, sarde e acciughe salate e la tanto attesa immaginetta della Madonna che con un pizzico di farina di grano inumidita veniva incollata, senza mai togliere quelle poste negli anni precedenti, nei tompagni delle botti per far venire il vino buono o posta nei granai in segno di ringraziamento per il buon raccolto; anche i pescatori dei paesi costieri contribuivano molto al sostentamento del Convento con pesce fresco e con barili di sarde o di acciughe salate che, con le olive e il pane benedetto, servivano poi per rifocillare i fedeli che venivano per il Festino e non c’era barca che non portasse per i mari la venerata e miracolosa immagine della Madonna di Gibilmanna.
Ricordo frate Ubaldo, il frate geniale e pieno di inventive, che con iniziativa personale e un vecchio generatore di corrente da lui riparato riuscì ad illuminare di luce elettrica la Madonna, più avanti con l'avvento della radio e poi della televisione divenne un esperto riparatore, la sua cella era strapiena di attrezzi di ogni tipo e apparecchiature come frequenzimetro, oscilloscopio, misuratore di corrente, valvole termoioniche di ogni tipo e un vasto assortimento di piccoli ricambi, s'era persino costruito un tornio meccanico per ricostruire taluni aggeggi introvabili in commercio; esperto micologo dedicava gran parte del suo tempo allo studio e alla ricerca sui funghi dei quali conosceva l'intera nomenclatura scientifica e che sapeva riconoscere a colpo ma anche ben cucinare per cui in tempo di raccolta era uso consigliare e istruire non pochi improvvisati cercatori di funghi …. “vedi i funghi sono come le persone ci sono quelli buoni e quelli cattivi, quelli buoni sono i più e si riconoscono a prima vista quelli cattivi per fortuna sono pochi ma non tutti sono proprio da scartare poiché alcuni di questi curati e cucinati in un certo modo diventano buoni da mangiare anche se talvolta ci vuole uno stomaco di ferro per digerirli”.... diceva così con grande semplicità e disinvoltura un profondo concetto di vita cristiana e, talvolta, uscendo dal seminato, mettiamola così, esprimendosi con tono convinto e austero esclamava …. ”non ti pare che dieci Comandamenti sono troppi? Ama il tuo prossimo come te stesso. Bastava solo questo! Che Dio mi perdoni! Perchè se tu non fai del male a nessuno automaticamente hai osservato anche gli altri nove” …. e mi pare che non avesse tanto torto a pensarla così.
Le giornate dedicate alla Festa della Madonna, in entrambe le ricorrenze, essenzialmente, si svolgevano secondo una procedura prestabilita e già nelle prime ore fredde del mattino, quando ancora un leggero velo di bruma avvolgeva i boschi circostanti, nella Puorta Guatteri le profumate focaccine di pane appena sfornate e benedette venivano distribuite con particolare cura a tutti i fedeli che, devotamente composti in file interminabili, ne ricevevano una a testa gustandone sull'istante il particolare sapore con consapevole purificazione dell'anima e dello spirito poiché non era il pane di tutti i giorni ma quello fatto con il frumento della carità per la carità, il pane del ringraziamento e della speranza, il Pane del Convento.
Mentre le Sante Messe si susseguivano una dopo l'altra affollatissime e ad una cert'ora già gruppi di persone malinconicamente s'andavano incamminando sulla via del ritorno, chi per accudire gli anziani rimasti a casa chi ad impellenti impegni domestici o di lavoro, altri gruppi arrivavano da ogni parte, villeggianti, pastori, contadini delle campagne vicine. Poi nel pomeriggio, la tanto attesa Processione in cui il Simulacro della Vergine, realizzato nel 1954 per volontà del Vescovo Cagnoni in conformità alla statua marmorea di Gagini, ripercorre nei due sensi l'ultimo tratto dell'originario percorso fatto per merito dell'ignoto frate eremita nel lontano 1530, che va dal Santuario alla Tribuniedda di Piano delle Fate, trascinandosi dietro un fiume interminabile di folla.
Bambini vestiti a festa e con il fiocco, capelli tagliati, imbrillantinati e accuratamente pettinati con la scrima, scarpi fini nuove o risuolate ma ben lucidate a nero e con lacci nuovi, pantaloni corti di fustagno stirati ad arte con cintura e fibbia fiammante e con bretelle, alla mano di orgogliosi genitori costretti, volenti o nolenti, a comprargli una trombetta o zaiarieddi multicolori con la medaglietta della Madonna poi legate a fiocco in un bastoncino improvvisato e mostrate in segno di festa e con orgoglio agli altri bambini e alla gente; era questa una delle poche concessioni da cui ogni genitore, vuoi per buonismo o per la santità del luogo, non poteva o non osava sottrarsi, eccezionalmente veniva concesso anche un piccolo cono di carta colmo di calia e semenza da mangiare, però, tutti insieme e a patto di essere sempre buoni e ubbidienti con tutti.
Vi era un gran brusìo tra la moltitudine di persone che si accalcavano nell’intero torniale e si percepiva la sensazione che la grande statua bronzea di San Francesco, collocata lì in centro fin dal 1927, riaffiorasse accogliente e benedicente e andasse incontro a quella immensa marea di gente in lento movimento guidandola per la scalinata centrale e le due laterali adornate da cespugli di profumati oleandri multicolore, al cospetto della Madonna; la celebrazione della Santa Messa con la chiesa strapiena e pervasa da un forte odore d’incenso, l'intenso profumo dei fiori sugli altari, i canti accompagnati dal suono dell’organo, i rintocchi dell’orologio, il sommesso ma percepibile borbottio di un vecchietto al suo vicino compagno di viaggio “ iddu parra e iddu si capisci” alludendo al latino dell'officiante, le preghiere cariche di forte partecipazione e quelle silenziose, il tintinnio delle monetine nella cassetta dell'elemosina, le labbra di un personaggio apparentemente autorevole in completo di velluto scuro e con gambali che fanno intuire a una preghiera, un bambino che si pavoneggia a cavalluccio del papà, volti sereni ed espressivi intenti a fissare ogni figura e ogni minimo particolare delle raffigurazioni intorno alla Madonna e nei grandi arazzi posti nelle pareti, il rumore di scarpi ruossi di chi si avvia lentamente verso un confessionale, un distinto villeggiante in completo scuro e col panciotto dal cui taschino ostenta di tanto in tanto un pregiato orologio con catenella d'oro, il pianto irrefrenabile di un bambino non abituato a stare soffocato in mezzo a tanta gente, dal pulpito la lunga omelia le cui parole saggiamente dosate scalfiscono come frecce le coscienze di ciascuno, la meditazione, i buoni propositi, il raccoglimento prima della confessione e poi l’Eucarestia a santificare la particolare giornata di culto e di preghiera dedicata interamente alla Madonna.
Fuori, all’ombra del grande pino e negli spiazzi circostanti, tante loggette per lo più improvvisate o realizzate artigianalmente assortite di oggetti sacri, attrezzi da lavoro, biscotti e frittelle, dolci tradizionali e zucchero filato, caramelle e prodotti alimentari d'ogni tipo incuriosivano la gente mentre suoni di zampogne, ciarameddi, friscaletti, tamburelli, chitarre e mandolini, inni campestri e canti religiosi alla Madonna allietavano la festa tra la gioia e il divertimento di grandi e piccini.
11.09.2011
Filippo Culotta























23.10.2011
Filippo Culotta

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