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LA STRAGE DI CALTAVUTURO

La lotta per la terra
stroncata con il piombo

La strage di Caltavuturo è legata alle vicende delle terre del duca di Fernandina. Nonostante l’abolizione del feudo, risalente addirittura a ottanta anni prima, si continuò a negare non solo la terra ma anche gli “usi civici” che spesso rappresentavano l’unica fonte di sostentamento per la povera gente. Il duca, sempre più sotto pressione del malcontento contadino, arrivò alla “concessione” di 250 dei suoi 6000 ettari. Quegli spiccioli di terra dovevano dunque essere distribuiti tra i contadini che, in un intreccio “poetico” fra tradizione e avanguardia, avevano conservato le salme di grano per le semenze delle future terre rinvigoriti nelle loro rivendicazioni dai nascenti fasci siciliani, il movimento dei contadini sorto sull’onda dei fasci operai dell’Italia centro-settentrionale. Ed è qui che subentra la corruzione degli amministratori: come quella del segretario comunale Antonino Oddo che, racconta don Giuseppe Guarneri nel libro “Ricerche storiche su Caltavuturo”, si era appropriato indebitamente di appezzamenti di terreno destinati ai contadini sfruttando la propria posizione burocratica.
Questa diffusa corruzione ben si legava agli ulteriori interessi dei notabili che avevano il proprio tornaconto nel tenere il popolo senza terra per sfruttarlo come manodopera a basso costo. In questo scenario si arrivò al 19 gennaio del 1893. La sera si tenne un’assemblea contadina nella quale si confrontarono diverse posizioni. C’era chi chiedeva l’occupazione nella convinzione che sarebbe andata a vuoto un’altra stagione di semina e chi sosteneva più moderate, che prevalsero: aspettiamo ancora qualche giorno, dicevano. Gli animi più intransigenti non si placarono e, nella notte, di casa in casa, arruolarono gli altri contadini per una grande manifestazione che si tenne il giorno dopo.
Al suono del corno si radunò la folla e occupò quei 250 ettari in contrada Sangiovannello. All’alba cominciò il dissodamento non solo simbolico delle terre. Nonostante le rassicurazioni del tenente Guttalà, comandante del presidio militare in paese, che riportava la presunta decisione degli amministratori per la concessione, i contadini continuarono imperterriti nella loro azione. Quella visita non era casuale: i caporioni, infatti, venuti a sapere di questi fermenti, avevano prontamente informato i carabinieri e i militari, infiltrando uomini all’interno dei manifestanti.
In seguito, un gruppo di contadini decise di parlare col sindaco e si recò in Municipio. Ma fu negata ogni udienza, con la scusa che non era presente nessun funzionario nel palazzo. A sorpresa invece, il segretario comunale Oddo si affacciò e provocò i contadini invitandoli a tornare nelle proprie abitazioni e di porre fine a quella “carnivalata”. Verso mezzogiorno il gruppo stava per tornare alle terre per riprendere il dissodamento, proprio mentre gli altri contadini avevano smesso di zappare per rientrare in paese. In mezzo trovarono schierati i carabinieri, i militari e due guardie comunali per impedire l’incontro. Guttalà ritentò a convincere i contadini a disperdersi e a tornare ordinatamente nelle proprie case. A quel punto, un contadino esasperato, o più verosimilmente un infiltrato, lanciò una pietra contro le forze armate che spararono due colpi in aria. La tensione crebbe e la confusione dilagò, i contadini avanzarono lanciando pietre contro i militari che risposero sparando ad altezza uomo diverse raffiche. A terra lasciarono otto contadini. Dei ventisei feriti cinque morirono nei giorni successivi. La folla si disperse e gli altri contadini fuggirono sulle montagne. Furono stanati e arrestati dai rinforzi della cavalleria arrivati da Palermo. I caduti rimasero sulla strada dalla mattina del 20 gennaio fino al pomeriggio del 21, presidiati dai militari che impedivano l’avvicinamento ai familiari ma non ai cani randagi, che devastarono i corpi.
Per quella strage si mobilitarono tutti i fasci contadini a sostegno delle famiglie delle vittime e il deputato Napoleone Colajanni attaccò duramente il governo in una delle tante interrogazioni parlamentari sull’eccidio di Caltavuturo.
Questa storia, che si era poi inevitabilmente intrecciata con il movimento dei fasci siciliani, si concluse esattamente un anno dopo, quando il presidente del consiglio Francesco Crispi ordinò la repressione dei fasci. Il movimento fu sciolti e tutti i capi furono arrestati e processati.
17.01.2011
Fausto Nicastro

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