Cefalù dal finestrino
Nostalgie in viaggio
Non voglio provare ad immaginare come sarà la mia Città e la sua gente domani, tra cent’anni o anche più voglio, invece, ricordarla com’era ai tempi dei nostri padri e dei nostri nonni per farla conoscere, per quel poco di importante che riesco a ricordare, ai nostri figli e a tutti i giovani che, purtroppo, oggi l’accettano e la vivono senza un legittimo e speranzoso futuro, alla giornata, così com’è: abbandonata a se stessa, indifesa e sempre di più in balìa di tutto e di tutti, velata del suo vero passato, privata della sua autentica naturalità e dei suoi più significativi valori, deturpata, denigrata, depredata, sfruttata, oppressa, degradata.
Troppi irresponsabili personaggi mascherati, assetati di interessi e di potere, a tutti i livelli e sotto false bandiere e ideologie, in ogni tempo, proponendosi volontariamente e incondizionatamente al suo servizio con mirate e allettanti proposte, coinvolgendo talvolta anche il nome pulito della Città e di gran parte della sua gente, l’hanno sempre illusa e, poi, vilmente disillusa dimostrando di non possedere neppure quel minimo di onestà intellettuale, di capacità e di competenza necessarie per garantire, oltre che la fruizione e la conservazione dell’inestimabile patrimonio naturalistico, storico, culturale, artistico e archeologico da tramandare alle generazioni future, anche una migliore e più dinamica vivibilità quotidiana sfruttando anche le potenziali risorse disponibili costituite da gruppi giovanili e di volontariato, nelle varie forme associative, molto ricche di competenze, di progetti, di passione e di iniziative utili ed estremamente necessarie; personaggi che, come tali, Sciascia non avrebbe esitato un attimo a coniare un ulteriore dispregiativo, oltre quelli di grande effetto già molto noti, per definirli esattamente.
Il sole vi sorge e vi tramonta, mai un barlume di speranza, non un raggio di luce, è sempre notte fonda …. e allora mi torna in mente il ritornello di una vecchia e quanto mai appropriata ninna-nanna imparata nei miei primi libri di scuola …. e nella notte il bimbo si addormenta, la neve fiocca lenta, lenta, lenta…. così, chiudo gli occhi e rivedo attraverso il finestrino di sinistra della “Freccia del Sud”, che sfila veloce l’ultimo tratto della lieve curva a destra che da Santa Lucia và al passaggio a livello della Gallizza, la splendida e rasserenante immagine di Cefalù con la maestosità della sua Cattedrale delicatamente protetta dalla Rocca; la vedo piacevolmente avvicinarsi tra lo sfondo azzurro del cielo e del mare e poi, tra lo stridere dei freni nelle rotaie, a brevi intervalli sparire e riapparire tra le poche case grigie vicine alla ferrovia; i volti della gente sul marciapiedi che sfilano uno ad uno sempre più lentamente, la fermata, la voce distinta del conduttore del treno che annuncia: Cefalù, stazione di Cefalù!
La sosta è commisurata al tempo che il fuochista impiega per ultimare le operazioni di rifornimento d’acqua della possente e ansimante locomotiva 625, alcune palate di carbone dentro la caldaia, il macchinista sporgendosi a sinistra sventola una bandierina verde, il fischio del capostazione prima e quello lacerante della locomotiva dopo, spezzano come per incanto il concitato vocìo della gente; due giovani fidanzatini, lui in abiti militari, che si scambiano furtivamente un ultimo bacio, poi la voce del conduttore: signori in carrozza! Si parte. Lo strattone che prende sempre tutti di sorpresa, lo sventolìo di un fazzoletto bianco forse intriso di lacrime, due mani che si sfiorano in un ultimo contatto e poi il fumoso sbuffare della nera locomotiva, dapprima lento e faticoso, poi sempre più energico e accelerato, spezza di colpo i pensieri, le ansie e i timori, facendo dimenticare ogni cosa, allentando la mente da preoccupazioni, ricordi, tristezze.
La galleria, come uno spaghetto risucchiato dalla bocca di un bambino, ci inghiotte inesorabilmente, la sua fredda oscurità e l’assordante rumore del treno che martella ad un ritmo sempre più marcato e veloce sulle rotaie, cancellano in un istante la visione e il ricordo di quel malinconico momento di tormentato distacco destando in me la sensazione di trovarmi lontano, molto lontano ma, poi, come solitamente accade che dopo un triste evento segue sempre un momento di intimo rasserenamento, viene improvvisamente interrotta dall’apparire dell’incantevole scogliera della Caldura che ancor più veloce scorre e a brevi tratti scompare tra i rumori del treno e del mare, poi riappare e scompare e, infine, la Rocca imponente che, rassicurante e silenziosa, lentamente si allontana e, come una mano tesa tra cielo e mare, mi invita a tornare, a non dimenticare; scenari e sensazioni tante volte vissute, ora ben distinti e incancellabili ricordi che a volte riaffiorano nella mia mente con immutata realtà tra i tanti di quegli anni normali, già molto diversi, lontani e indimenticabili malgrado il tempo trascorso.
Anni prima, quando le sigarette si compravano anche sfuse e con un’Alfa si poteva fumare anche in cinque o sei fino a bruciarsi le dita, per motivi di studio, ho viaggiato giornalmente per alcuni anni la tratta Cefalù-Palermo, allora non ancora elettrificata, e fu in quelle circostanze che imparai ad osservare e apprezzare pienamente la singolare bellezza di questo luogo davvero unico; sedevo sempre accanto al finestrino di destra all’andata e a quello di sinistra al ritorno e ciò, nella sua estrema futilità, mi distraeva dai pesanti disagi del viaggiare in treno in quegli anni.
Negli anni a seguire, la lontananza dei luoghi in cui ho vissuto non mi ha mai impedito di affrontare tali disagi e, anno dopo anno, sono tornato per brevi periodi a rivedere la mia famiglia, i miei parenti, la mia Città e i luoghi della mia prima età e, così, il finestrino diventò per tanti anni il mio vicino e fidato compagno di viaggio; seduto al suo fianco ho trascorso notti insonni e interminabili giornate, ho ammirato splendide località e cieli stellati, albe allietanti e malinconici tramonti, il mondo venirmi incontro o sfuggirmi rapidamente; da tutti sempre preteso, ambito, desiderato, e chi non voleva sedervi vicino! Alzato, abbassato, a spiraglio, oscurato; entra caldo, entra freddo, un pò d’aria, un poco più su, un tantino più giù, chiudetelo! Signora sta male? Sieda vicino al finestrino, e vedrà che starà meglio ma, poi, rimaneva piantata lì per tutto il resto del viaggio. Quante braccia protese per gustare le croccanti e saporite arancine di Messina, le sfogliatelle napoletane ancora calde e profumate di cannella, il buon caffè ristoratore alla stazione di Firenze, o catturare il giornale preferito con le prime notizie del giorno e poi quei bocconi d’aria fresca e stimolante del primo mattino da far risvegliare anche il più assonnato dei viaggiatori.
Talvolta, nel ripartire, mi recavo di proposito a Palermo Centrale per prendere la Freccia, la Conca d’Oro o il Treno del Sole per poter trovare un posto a sedere vicino al finestrino di sinistra e potere ammirare e godere, passando dalla mia Città, quella veduta singolare e meravigliosa che mi emozionava sempre come fosse la prima volta, avvolgendomi in un intimo e fuggevole abbraccio, per poi restare viva e impressa nei miei occhi e nella mente per tutto il tempo della lontananza.
Al ritorno, quando era possibile, durante il traghettamento cercavo di trovare un posto vicino al finestrino di destra per avvistare da lontano i bagliori intermittenti del faro nella notte, o l’inconfondibile e maestosa sagoma della Rocca di giorno, pregustando gli odori, i sapori e gli affetti della mia Terra e della mia Città.
E’ certo, però, che chiunque sia in grado di percepire tali nobili ed intime sensazioni si convincerà, o prima o poi che, da qualunque lato avrà modo di osservare questo luogo incantato, da destra, da sinistra o dal centro, sarà sempre un inconsapevole e privilegiato spettatore di un miracolo unico della natura che merita sempre, da parte di tutti, e in particolar modo da coloro che si propongono timonieri del suo destino, la massima attenzione e un grande incondizionato rispetto.
Il caldo e tranquillo rione della Rocca (u iavutu), dalla piazzetta Santa Croce al vecchio mulino di Santa Barbara, la via Lo Duca dove al numero 3 sono nato, quel balcone al secondo piano con vista sul sagrato della vicinissima Cattedrale dove si giocava o sbrigghiu, a ligniedda, a strummula, cu pirè, cu i buttuna recuperati dagli abiti vecchi o, molto più raramente, con qualche vecchia monetina fuori corso racimolata dalla nonna, alle prime luci del giorno gli improvvisi risvegli al suono delle vicine campane che facevano vibrare persino il letto e i passi frettolosi della gente di campagna che si recava alla messa del Padre Nostro prima di avviarsi al lavoro; la via Francavilla dove al numero 40 ho vissuto i primi anni di scuola con la finestra che al suo interno, seduto sulla sponda del vicino mio letto, mi dava modo di poggiare libri e quaderni e studiare; la vecchia casa in via Giovanni Amendola 36 dove ho vissuto la traumatica esperienza di lasciare per la prima volta la mia famiglia e la mia Città e poi, nei primi anni dello sviluppo dell’edilizia urbana, la nuova casa nella via Papa Giovanni. Oggi, fino a quando Dio vorrà, dimoro con la mia Città nella sua contrada Santa Barbara.
Era bello camminare a destra, a sinistra o al centro, per quelle stradine sicure e sgombre di ogni cosa, pulite e silenziose, movimentate sempre e soltanto dai festosi sventolìi di candidi lenzuola stesi da una parte all’altra ad asciugare, dai rumori degli zoccoli di un mulo o di un carretto che alle prime luci rompevano il riposante silenzio mattutino segnando l’inizio di un nuovo giorno, dove ogni voce e ogni rumore, di giorno o di notte, erano familiari come l’aria pura che si respirava, l’acqua purissima, limpida e fresca delle fontanelle, l’odore del pane appena sfornato, dei frantoi, dei fiori; si passeggiava tranquilli nto Cursu ascoltando Mamma, Granada .... e, quando si arrivava o Chianu o, viceversa, a Puorta Tierra si tornava indietro con passo più lento per riascoltarle ancora perché, bontà sua, una certa signora Stefanina, all’ultimo piano, vedova gioviale e baggiana con il fuoco nelle vene, molto brava a cantare, ballare e schioccare le nacchere, malgrado l’età, non faceva mancare mai la buona musica ai passanti e al vicinato; andava molto fiera dei suoi tanti 33 giri, tutti rigorosamente custoditi dentro le foderine originali di carta colorata con i volti sorridenti dei fascinosi cantanti, specie per quelli molto costosi e introvabili di Caruso e di Gino Bechi e, a volte, si toglieva il pane di bocca per comprarsi l’ultimo di Claudio Villa, di Luciano Tajoli o di Achille Togliani; d’altronde, era noto che di puntine nuove per il suo antico grammofono ne consumava a dozzine e non si sarebbe mai sognata di usarne una limata nella scatola di fiammiferi di legno, avrebbe cantato per ore e ore piuttosto che rovinare i suoi dischi, perché in casa sua tutto poteva mancare tranne la musica.
La marina fresca (u vasciu), ventilata e odorosa di pesci e di sale, le barche dai colori smaglianti con i nomi più cari, i volti scuri, rugosi e austeri di anziani e coraggiosi capibarca o di semplici pescatori abilissimi nel conoscere il tempo, nel remare, nella pesca e nella cura delle barche, delle reti e del cordame, quest’ultimo, accuratamente prodotto dalle loro abili mani callose intrecciando la comune ddisa che loro stessi, durante la stagione invernale, andavano a mietere nelle campagne più vicine; se poi nelle calde notti d’estate si voleva andare a dormire sul tardi attendendo che si smaltisse la calura dei tetti e della Rocca e fino ad una cert’ora si gironzolava da quelle parti non si potevano non ammirare all’orizzonte dieci, cento lampare che offrivano uno spettacolo magico e sfavillante che non si finiva mai di guardare perché rasserenava l’anima e la mente, dissipava i pensieri e le preoccupazioni, allargava all’infinito gli orizzonti della fantasia.
Al mattino, in ogni angolo di strada, pescatori ancora con i calzoni rimboccati e i piedi nudi con le squame dei pesci ancora attaccate, stanchi e assonnati ma orgogliosi del loro pescato, offrivano in ceste di vimini, abilmente lavorate a mano, stracolme di sardi, anciovi, trigghi, cicireddu e frutti di mare di ogni tipo, il ricavato delle loro quotidiane fatiche notturne riempiendo del gradevole odore di mare ogni stradina, ogni vicolo e ogni casa, e ripagando le loro famiglie delle ansie e dei timori.
Tutt’intorno, a degradare, come tribune naturali create dall’abile mano divina per ammirare uno scenario unico, inimitabile, emozionante e suggestivo, le verdeggianti e profumate colline coi tanti viottoli e trazzere, i piccoli e rumorosi ruscelli pieni d’acqua purissima confluenti a mare attraverso ricchi orti e rigogliosi giardini profumati di zagara e protetti dalla salsedine marina da lunghi filari di canne o folte siepi di mirtilli ricoperte di innumerevoli e variopinti crastuniedda e vavaluci; era questa la più vicina fonte di ricchezza contadina da dove frutti nostrani, olive, agrumi, vino e spighe di grano colmavano le botteghe e le modeste case della gente e dove ogni uccello per fare il suo nido poteva scegliersi sempre l’albero più bello. Alberi: vite silenziose che parlano solo col vento, vite generose, vite per la Vita, vite spezzate, annientate, estirpate, bruciate oltre ogni più ingrata e incivile immaginazione da insaziabili individui indegni persino di essere nati, vite che rinascono.
Rivedrai le foreste imbalsamate, le verdi valli e i nostri templi d’or, canta Radames alla sua celeste Aida e Lei, dolcemente, risponde: si, rivedrò le foreste, ecc.; e noi, le rivedremo?
Da bambino mi è capitato di sentire dalle sagge parole dei grandi che fin dai tempi molto antichi una buona abitudine per far stare bene il proprio corpo era anche quella di guardare sempre e con molta attenzione la propria cacca come lo specchio della propria salute; infatti, alcuni bravi animali come, ad esempio, il gatto, da sempre lo fanno e, non solo! Persino l’annusano attentamente come se facesse ancora parte di loro, poi la ricoprono accuratamente di Terra, di Vita; al mite coniglio selvatico o alla lepre che, com’è noto, vivono in modo molto riservato tra tane e cespugli, non mancherebbero certo le occasioni per nasconderla in quei luoghi appartati a dispetto di tutto e di tutti però, da bravi animali, da sempre la conferiscono con molta cura sempre nello stesso luogo, solitamente in una piccola e ben pulita radura in mezzo al bosco o alle campagne, noncuranti del probabile rischio, che nelle notti di luna, in quel momento di soave ed intimo raccoglimento, si becchino una schioppettata da qualche incallito bracconiere appostato di proposito in quei luoghi; e noi? Ovunque posiamo il nostro sguardo, a destra, a sinistra o al centro, di cacca ce n’è a bizzeffe; la Terra è la vita, ma non è nostra! Eppure continuiamo a calpestarla egoisticamente e con assoluta indifferenza; cultura, umiltà, onestà, dedizione, responsabilità, amore, rispetto sono ormai tutte parole da vecchio vocabolario in disuso.
Perciò mi sovviene il bordello (quello vero), che non a caso rimeggia con il vicolo Macello dov’era ubicato, sempre strapieno all’inizio di ogni quindicina o a tarda sera e se, occasionalmente, qualche trepidante forestiero chiedeva a qualcuno dov’era, nessuno sapeva dove fosse, e ogni vicolo o stradina nelle vicinanze, di giorno, venivano rigorosamente evitate e percorse, semmai, nottetempo; chi vi si inoltrava perché non ne poteva fare proprio a meno o per qualche altra estrema necessità, veniva inesorabilmente bersagliato da sguardi perfidi e maliziosi; quanti vi sono entrati “ragazzi” e usciti spavaldamente “uomini”!
E poi l’opera dei pupi (ma quelli veri!), quella grande e spettacolare, che incuriosiva sia che fosse vista con gli occhi attoniti e innocenti di un bambino o con quelli più acuti e assennati dei grandi; a ridosso della vecchia recinzione della villa comunale e la via Matteotti o in piazza del Duomo o di fianco al monumento dell’eroe Spinuzza in piazza Garibaldi, mani abilissime allestivano in men che non si dica, sotto gli sguardi curiosi della gente che si andava radunando, un piccolo teatrino circoscritto accuratamente da un panno verde lungo fino a terra, il cui contenuto nascosto rendeva gli occasionali spettatori impazienti e ansiosi di vedere lo spettacolo che immancabilmente non finiva mai di stupire grandi e piccini: i paladini. Pupi senz’anima?
Alti poco meno di un metro ma, al loro apparire, figure di giganti che, ancor prima di manifestare le loro ineguagliabili gesta, destavano intrepide attese, puri sentimenti e sensazioni indescrivibili; un teatrino di rispetto ne possedeva alcune decine e, cosa essenziale, almeno altrettante teste di ricambio perché, inevitabilmente nel corso delle varie rappresentazioni degli eventi, per effetto dei più affinati e micidiali strumenti di offesa, queste erano immancabilmente le parti più soggette a guastarsi o, addirittura, a saltare irrimediabilmente; vi si alternavano il ricco e potente Carlo Magno, il traditore Gano di Magonza, il forte e fedele Orlando, lo scaltro e ribelle Rinaldo, il fanfarone Astolfo e tanti altri più o meno valorosi ma sempre molto baffuti guerrieri.
Nel presente la nostra calda e amata Terra, principalmente, per gloria o per destino, ne annovera ancora due tipi molto resistenti ai sopravvenuti cambiamenti storici: i pupi palermitani e quelli catanesi, gli uni più piccoli e molto più manovrabili si diversificano perchè pupi e pupari operano sullo stesso piano scenico con gli abilissimi pupari ben nascosti dietro le quinte, gli altri più grandetti, invece, perché vengono manovrati dall’alto da mani ben nascoste altrettanto abilissime ed esperte. Chi non ha assistito, da piccolo o da grande, alle cruente battaglie e alle intrigate vicende contro opposti personaggi da eliminare a tutti i costi!
Allora, all’inizio di ogni rappresentazione, in entrambi i casi, i pupari si prendevano sempre cura di sistemare a destra i pupi buoni, a sinistra quelli cattivi e al centro quelli che avrebbero potuto, a seconda delle circostanze, rivestire entrambi i ruoli ciò a scanzo di sovvertire, nel corso della rappresentazione le trame o gli storici copioni o deludere le aspettative degli attenti e intrepidi spettatori. Malgrado tali accorgimenti, c’è da dire, che non sempre tutto andava per il verso giusto e, nel malaugurato evento, poteva capitare che, addirittura, gli ignari spettatori, presi come erano dal trambusto e dalla foga dei catastrofici eventi, non si accorgessero di nulla e, sul finire dello spettacolo, al momento del consueto giro col piattino, felici e contenti contribuivano sempre con qualche soldino anche se accadeva spesso che i soliti furbetti, di soppiatto e al momento opportuno, se l’erano già data a gambe. Le rappresentazioni, una volta contati e intascati di nascosto i soldini, si susseguivano dopo brevi intervalli e, chiuso il sipario e arrotolato il cartellone, il cantastorie, bacchetta alla mano, dispiegava il cartellone successivo iniziando la consueta appassionante narrazione della prossima storia e dei suoi valorosi e ardimentosi guerrieri. E ora …..? I gabbiani non mangiano più i pesci e, come gli avvoltoi nelle brulle e assolate savane, veleggiano indisturbati sulle più ricche e bene assortite discariche rifornite giornalmente di ogni ben di Dio da più evoluti esseri viventi; i gatti non mangiano più i topi e, in barba alle migliaia di persone che ogni giorno nel mondo muoiono di fame, si leccano i baffi con prelibati bocconcini appositamente dedicati; i cani sgranocchiano saporiti croccantini pattinando su lucidi e incerati pavimenti e, a sera inoltrata, con al collo telescopici guinzagli vanno a conferire la cacca in ogni dove guidati da esperti ed affettuosi padroncini; uccelli urbanizzati che fanno i nidi nei balconi o sui cartelloni pubblicitari e rondini che non ritornando più ai loro nidi perché non ci sono più le tanto attese primavere, le api muoiono e con esse buona parte delle risorse vegetali, i passeri che ogni sera ricoprivano gli alberi di Porta Terra e della Villa fino a far piegare i rami non ci sono più, i cuorbi, i ciauli, i vavaluci, crastuna, attuppatieddi, cicali, ariddi, palummieddi, parpagghiuna, cannili picurari; e i pupi (quelli veri), u mmi puozzu rari paci! Unni riavulu ieru a finiri?
23.08.2010
Filippo Culotta